Immaginare il mondo dopo il coronavirus

L’idea di un “ritorno alla normalità” non sembra più sostenibile. Ci sarà una nuova normalità che per tanti versi è molto diversa dalla vecchia normalità. E le scelte che facciamo ora – in fretta e senza pensarci troppo – avranno un impatto su quel mondo diverso in cui vivremo.

Come scrive oggi Yuval Noah Harari nel Financial Times: “Le decisioni che in tempi normali potrebbero richiedere anni di deliberazione vengono prese nel giro di poche ore. Tecnologie immature e persino pericolose vengono messe in servizio, perché i rischi di non fare nulla sono maggiori”. Inoltre, scrive, “le misure temporanee hanno la brutta abitudine di durare nel tempo, tanto più che c’è sempre una nuova emergenza in agguato all’orizzonte”.

Quali sono quindi le principali sfide che dobbiamo affrontare, quando ci prepariamo per il mondo dopo il coronavirus?

Harari vede due scelte: “La prima è tra la sorveglianza totalitaria e l’empowerment dei cittadini. La seconda è tra isolamento nazionalista e solidarietà  globale”.

Brian Merchant mette in evidenza un altro rischio – l’Amazon-ificazione del pianeta, un trasferimento permanente di posti di lavoro tradizionali presso piccole imprese locali, come ristoranti, bar e negozi locali che sono ora costretti a chiudere, a lavori part-time inaffidabili per giganti della tecnologia che distribuiscono prodotti e servizi attraverso piattaforme online sempre più automatizzate e robotizzate.

Gideon Lichfield, il capo redattore del MIT Technology Review, guarda [trad. ita.] sia agli impatti a breve che a lungo termine, e prevede che “verrà ripristinata la capacità di socializzare in sicurezza, sviluppando modi più sofisticati per identificare chi sia a rischio di malattia e chi no, e discriminando legalmente chi lo è.” (sic).

Lichfield non considera l’idea di Harari dell’empowerment dei cittadini come un’alternativa alla sorveglianza totalitaria. “La sorveglianza invasiva sarà  considerata un piccolo prezzo da pagare per la libertà fondamentale di stare con altre persone.”

Politico ha intervistato trenta “intelligenti, macro pensatori”. Il loro pensiero, comprensibilmente, va in tutte le direzioni: da un discorso politico più costruttivo all’attenzione per l’importanza delle competenze, dalla fine dell’iperindividualismo ai nuovi investimenti in beni pubblici, dall’aumento della telemedicina al rafforzamento delle reti di assistenza e sicurezza per le famiglie, dai parlamenti virtuali al voto elettronico, dal ritorno dello stato grande a una rivolta politica, dal rafforzamento delle filiere interne a una maggiore disuguaglianza.

E Atossa Araxa Abrahamian immagina lo scenario “best case” nel The Nation, dove politici, leader e decisori usano questo momento drammatico per sistemare tante cose che sono sbagliate nel nostro mondo.

Infine, l’antropologa cinese-americana Tricia Wang sottolinea la rinascita dell’iper-locale, basata sul suo lavoro etnografico virtuale sul campo con i residenti di Wuhan:

“Non sono state solo le misure dall’alto che hanno rallentato con successo le infezioni, ma anche l’organizzazione dinamica dal basso verso l’alto in reti sociali emergenti e iper-locali che hanno permesso a milioni di individui di condividere e controllare le informazioni, trovare posti letto, dare supporto sociale, procurarsi cibo”.

Scrive che “siamo abituati a partecipare a grandi gruppi e stream come Twitter Reddit, Facebook, e tumblr dove siamo lurker, emittenti, o partecipanti” ma che in questa pandemia abbiamo “bisogno di reti iper locali di persone che sono letteralmente a pochi passi o a breve distanza in auto”. Così, usando queste linee guida di Slack, ha creato una propria rete iper locale basata sulla vicinanza geografica a New York City.